Finora le auto elettriche sono state alimentate a ioni di litio, ma dal Giappone arriva un’innovazione che potrebbe cambiare tutto.
Le macchine a zero emissioni rappresentano il nostro futuro. A fronte delle normative comunitarie che, come noto, hanno stabilito che a partire dal 2035, non potranno più essere rilasciate vetture a diesel e benzina, quasi tutti i costruttori hanno cominciato ad adeguarsi inserendo in maniera sempre più considerevole gli EV nelle loro offerte.
In alcuni Paesi, però, a dispetto dell’ampia presenza sui vari listini di tale tipologia di vetture, in pochi le acquistano. Tra questi figura certamente l’Italia e le ragioni sono molteplici: il costo, ma altresì la scarsa autonomia, che costringe a lunghe soste per il recupero dell’energia, oltre che la carenza di infrastrutture per la ricarica.
Attualmente le batterie che consentono ai mezzi full electric di funzionare sono agli ioni di litio. Una tecnologia buona per iniziare, ma che presenta delle criticità come appunto la necessità di essere frequentemente sottoposte a recharge.
Alla luce di tale problematica, in molti hanno cercato di trovare un rimedio, una soluzione. C’è chi ad esempio sta adottando quelle a litio-ferro-fosfato, ma da Tokyo è appena emerso uno studio che potrebbe rivelarsi rivoluzionario.
All’Università delle Scienze della metropoli nipponica hanno provato ad individuare un’alternativa, capace di garantire maggiori e migliori prestazioni. Di cosa si tratta, adesso lo andremo a vedere.
Dal Giappone le batterie rivoluzionarie
Prima di svelare di cosa si tratta facciamo un passo indietro. Stando a quanto analizzato dall’Università di Harvard, una vettura elettrica è conveniente soltanto dopo aver coperto almeno 45mila km, quindi globalmente si spende meno con un mezzo a carburante, tuttavia le esigenze dettate dal riscaldamento globale impongono un cambio di rotta.
Assodato il concetto, lo step successivo è rappresentato dalla ricerca di modalità che possano rendere più efficiente il veicolo. Ed è qui che entra in gioco il report giapponese, secondo cui la risoluzione dei mali sarebbe rappresentata dagli accumulatori al potassio o KIB. Il motivo? Si ottengono utilizzando materiali facilmente reperibili e più sicuri. In più, utilizzando un elettrolita formato da acqua e sale il processo diventa più stabile sia sotto il profilo termico, sia chimico.
Gli esperimenti condotti dal professor Shinichi Komaba, in collaborazione con Ryochi Tatara, Zachary Gossage e Nanako Ito hanno portato alla conclusione che il potassio garantisce un rendimento più costante e una maggiore durata.
A questo risultato l’equipe è arrivata osservando come le interfacce elettrochimiche solide prendessero forma e reagissero in fase di funzionamento di una batteria al potassio con una soluzione sviluppata in precedenza e un elettrodo negativo di diimmide. Ebbene è emerso che gli elettroni vengono trasferiti più lentamente, bloccando l’evoluzione dell’idrogeno e garantendo una risposta migliore sulla distanza temporale.
Gli studiosi hanno dunque espresso la speranza che questo rappresenti soltanto il primo passo verso lo sviluppo massiccio di accumulatori ad acqua, come appunto quelli al potassio, per incrementare l’autonomia e abbattere i rischi che non mancano quando si tratta di sostituire i blocchi agli ioni di litio, in un’ottica sempre più “verde” dell’automotive.